Intervista a don Giuseppe Piazzini

Il segreto della felicità

Intervista a don Beppe Piazzini, PIME

 

Quest’estate è tornato per alcuni mesi dal Giappone al suo paese di Pradalunga padre Giuseppe Piazzini, più noto come “don Beppe”, missionario del PIME. Classe 1936, il prossimo 30 marzo 2023 celebrerà il 60° anniversario di ordinazione presbiterale. Gli abbiamo posto alcune domande.

 

Se, come chi arriva in vetta a una montagna, guarda indietro, che cosa rivede soprattutto di questi 60 anni?

L’entusiasmo di lavorare per il Signore, per il suo Regno è stato il mio filo conduttore. Ogni giorno ho cercato di fare qualcosa, allo stesso modo che un papà o una mamma si prende cura della sua famiglia. Ogni giorno ti chiedi che cosa devi fare nel luogo dove Dio ti ha messo. La famiglia è grande, le necessità sempre nuove: cerco di far sì che le persone possano essere sempre vive, attive, progredire nella loro vita di unione con Dio, capire sempre più chi è il vero Dio.

 

Che significa “lavorare per il Regno”?

È un termine inconsueto, perché oggi non ci sono quasi più re e regni. Bisogna andare al vero significato: Dio è tutto, e tu lavori, sei un suo dipendente. È lui che ti manda e a lui devi rendere conto. Giorno per giorno ti esamini, ma al contempo ti rinfranchi per fare le cose come vanno fatte. E come debbano essere fatte, te lo dicono le persone che ti stanno attorno, tutti i giorni. Se sei responsabile di una scuola materna, devi farlo in modo che sia la migliore del mondo, cioè dove Dio c’è: è lui il motivo principale che ti muove.

Nella scuola materna, c’è l’incontro con i ragazzi, con le maestre, con i genitori: cerchi di essere te stesso, senza prepararti eccessivamente, tranne che per l’omelia della Messa. Si tratta di fare un cammino insieme ai fedeli, vedere se ti seguono, ti sentono, e dare il meglio che puoi senza tanti sogni o troppo fervore che sviano dalla verità. A volte devo correggere certe visioni religiose: alcuni onorano la Madonna e dimenticano Gesù. Occorre essere autentici imitatori di Maria che amava suo Figlio e con Giuseppe custodiva la conoscenza di Gesù giorno per giorno.

 

Com’è cominciato il tutto?

Il curato don Dario mi ha schiaffeggiato parecchie volte, anche all’altare, ma poco dopo ero ancora attaccato alle sue sottane. Mi ha insegnato a vivere per gli altri, con gioia. Ero un ragazzo che non riusciva ad essere quieto, sentivo il bisogno di avere vita in me e attorno a me, volevo diventare come don Dario che stava con i giovani.

Poi ho conosciuto don Giacomo Azzola, missionario del PIME nei suoi ritorni al nostro paese. Lo vedevo pregare, con il suo messalino maneggevole… Non era mai stato in missione, per ragione di salute, insegnava in seminario. Era un gentiluomo, ben preparato. Mi sono sentito attratto dalla sua figura e gli ho detto: “Vorrei anch’io diventare prete, come lei!”.

Quando eravamo in quinta elementare, il parroco don Bianchi, insieme a Battista Azzola, ci ha mandati a Chiari, Brescia, dai Salesiani, cui era molto legato. Siamo arrivati là a luglio-agosto, in anticipo, non c’era ancora nessun ragazzo, abbiamo trovato un cantiere… Io piangevo e dopo una settimana ho voluto tornare a casa e don Dario è venuto a prendermi. Meno di un anno dopo ho parlato con don Giacomo che mi ha aiutato a diventare prete. A quel tempo non avevo in mente la vita missionaria.

Don Giacomo è venuto a parlare con mia mamma. Mio papà era contrario perché doveva pagare la retta. Sono comunque partito da Pradalunga, con diversi altri ragazzi. Ho fatto le prime due medie alla Grugana, dove c’è il Santuario della Madonna del Bosco. Dopo sei mesi il papà ha acconsentito ed è venuto a trovarmi. A Vigarolo Lodigiano ho terminato le medie a e fatto il ginnasio. A Monza ho frequentato il liceo e poi sono tornato a Grugana per il Noviziato e infine sono andato a Milano, dove ho frequentato gli ultimi anni di teologia. I missionari che rientravano dalle missioni ci raccontavano le loro esperienze, entusiasmandoci. Le loro esperienza ci davano più forza.

Il 30 marzo 1963, nel duomo di Milano, insieme a un centinaio di altri diaconi, siamo stati ordinati dal card. Montini. Pochi mesi dopo morì papa Giovanni XXIII; il card. Montini andò al Conclave e fu eletto Papa, prendendo il nome di Paolo VI. Siamo stati gli ultimi preti che egli ha ordinato a Milano.

Diventati preti, a giugno sono uscite le destinazioni. Metà dei miei compagni di ordinazione erano stati destinati a diversi Paesi. Dal Lussemburgo, dov’ero andato a trovare una zia, mi sono informato sulla mia destinazione. Il mio nome appariva in fondo alla lista, con la destinazione a “Vice-rettore del Seminario minore di Treviso”.

Là ho passato un anno. C’erano una settantina di ragazzi e mi sono trovato bene; con i ragazzi non ho mai trovato nessuna difficoltà. Speravo tuttavia in una destinazione, senza avere preferenze di Paese, e dopo un anno sono stato destinato per il Giappone. Solo per scherzo, durante gli anni della teologia, ci eravamo destinati con foto e pannelli. A me avevano messo il cappello da cowboy… Tutti si sono meravigliati della mia destinazione: “Tu, Piazzini, in Giappone…. ma sei matto? È un posto per laureati!”. Ho detto: “Così mi hanno destinato!”. Nel 1964 sono andato a studiare inglese negli Stati Uniti e l’anno dopo da Chicago sono partito per Tokio, in Giappone. Era il mio primo viaggio in aereo.

 

Che cosa pensava andando in Giappone?

Ero contento. Quando sono arrivato là, non c’era nessuno ad aspettarmi. Avevo un bigliettino con l’indirizzo della nostra casa scritto in “romaji” (lingua giapponese, caratteri nostri). Ho cambiato un po’ di soldi e ho trovato un giovane tassista che conosceva il posto e mi ha condotto alla casa del PIME. Ho suonato ma nessuno è venuto alla porta. Ho notato che all’ingresso c’erano allineate delle ciabatte. Ho capito che dovevo metterle per entrare, allora sono tornato in giardino e ho passeggiato un po’. Poi ho fatto il mio primo atto di adattamento: mi son tolto le scarpe, ho messo le ciabatte e sono entrato. Ho trovato la signora che aiutava nelle faccende di casa, che ha telefonato al Padre di cui le avevo detto il nome. Ho capito in seguito che sulla lettera che avevo mandato per informare del mio arrivo avevo messo un indirizzo incompleto: essa infatti arrivò una settimana dopo.

 

Come sono stati gli inizi?

Tutti i giorni, per due anni, sono andato a scuola di giapponese e la signora mi preparava il pranzo da portare con me, aggiungendo anche la gomma da masticare, perché pensava che fossi Americano. La totale diversità della lingua può scoraggiare chi è agli inizia, ma non è stato il mio caso. Intrattenevo con giochi di prestigio le suore e i preti di vari istituti e Paesi che frequentavano con me la scuola. Cercavo non di essere al centro, ma di rendere leggera per tutti l’aria della scuola.

Ho cominciato a prendere fotografie e filmini di 8mm un po’ scherzosi e li facevo vedere. Erano gli ultimi anni del Concilio e si vedeva una continua mutazione delle divise delle suore… Alla fine dei due anni, ho riunito i filmini e tutti ci siamo divertiti. Non sono mai stato una cima a scuola, ma usavo anche il giapponese per intrattenere i miei compagni. Con la maestra visitavamo varie località del Giappone: il giardino dell’Imperatore, gli spettacoli teatrali classici…

Avevo relazioni con altre scuole dove mi invitavano a fare giochi di prestigio. Il giorno che è arrivato il nostro Padre generale, mons. Pirovano, ero tornato a casa alle 10-11 di sera. “Non t’ha fatto la predica?”, m’ha chiesto qualcuno. Invece mi disse: “Sei in gamba, vedo che cominci a lavorare: bravo!”.

Verso il termine del corso di lingua, mi sono iscritto all’Università, ma uno dei nostri responsabili mi ha detto: “A te piace troppo la scuola! Finito il corso di lingua, vieni dalle nostre parti così ti ambienti”. Mi hanno destinato a Fujiyoshida, una piccola parrocchia sul monte Fuji, forse la più alta di tutto il Giappone, come viceparroco di un prete del PIME tutto dentro la cultura giapponese. Scriveva libri, traduceva i classici giapponesi, mi introdusse nello sport giapponese. Faceva lo Zazen, che chiede di fare il vuoto… e nella casa della rettoria non c’era proprio nulla.

Non avendo niente da fare, ho pubblicato sui giornali l’annuncio che insegnavo inglese alla sera. Un gruppetto di giovani veniva a studiare inglese, mentre bevevamo un po’ di caffè. Naturalmente si parlava anche giapponese. Il Parroco disse che non si poteva utilizzare il caffè della Rettoria. Allora abbiamo preso i nostri soldi e abbiamo comprato il nostro caffè.

Trovata una bicicletta, pedalavo sulle salite della zona. Sentivo da una scuola vicina degli studenti liceali che praticavano il judo lanciare le grida tipiche di questo sport. Ci sono andato là e il maestro mi ha accolto. Ho comprato la divisa e la sera praticavo judo con loro. Nel primo mese dormivo poco perché ero tutto scorticato…

Mi sono fatto amico di un bonzo che insegnava l’arte del tè alle giovani che si dovevano sposare. Quando le giovani hanno fatto l’esame finale, mi ha invitato come ospite d’onore. Anch’io inginocchiato ho dovuto bermi cinque o sei tazze di tè: un tè denso, da cerimonia. Anche quella sera non sono riuscito a dormire e quando mi sono alzato non riuscivo a stare in piedi: le gambe mi dolevano.

Da lì mi sono spostato in una parrocchia, con un prete largo di idee e ho cominciato a respirare un po’… Poi sono andato altrove. In Giappone c’è la regola che un prete non può stare più di dieci anni in uno stesso posto.

 

Qual era la sua linea di impegno?

Desideravo dialogare, avere contatti con più persone possibili: cristiani o non cristiani, tenere con loro una conversazione viva, non pesante, senza mettermi al centro. Stavo bene io e stavano bene anche loro. Alcuni giovani cominciavano a studiare il percorso di catecumenato… In alcuni posti mi hanno chiesto di fare il responsabile della scuola materna: seguire i ragazzi, le mamme, il loro coro delle mamme e le varie attività… Ero contento, era la mia vita, mi sono sempre trovato bene con i ragazzi.

Frequentavo al contempo a Tokyo i corsi di filosofia e di psicologia all’Università tenuta dai Gesuiti: partivo alle 13 e tornavo verso le 23. Studiavo, partecipavo alle varie attività accademiche, infine ho dato la tesi e mi sono laureato in psicologia. Questi studi mi hanno aiutato molto a conoscere la cultura giapponese e a inserirmi. Lo studio dà all’esperienza quotidiana sicurezza e autorevolezza: mi sentivo sicuro nel mio servizio. Dove c’erano scuole materne, automaticamente ne diventavo direttore. Con le maestre andavo abbastanza d’accordo, ma ero esigente: l’asilo cattolico deve essere il primo come educazione, occorre essere all’altezza delle esigenze della morale giapponese.

 

La missione l’ha dunque vissuta soprattutto attraverso la relazione, l’amicizia… Quanto è importante questo per il Giapponese?

È molto importante. Se cominci a dialogare e ti rendi abbordabile, familiare, al loro livello, sei contento tu e sono contenti loro. Non sei tu, ma loro che diventano il centro. In qualunque parte sono andato, mi sono trovato bene. Come sacerdote, poi, devi prendere a volte decisioni abbastanza forti. Per esempio, se arrivi in una chiesa di lunga data e i cristiani vogliono rifare la chiesa, devi implicarti anche tu. Così, insieme ai cristiani e con l’aiuto di persone competenti, abbiamo rifatto due chiese. Ho coinvolto anche Pradalunga, che mi ha mandato le stazioni della Via Crucis.

Una cosa che faccio anche ora è tenere vive le relazioni con le persone incontrate. Io scrivo molte lettere e cartoline, anche in Giappone: ne spedisco forse duemila in un anno. Alle centinaia di coppie che ho sposato mando gli auguri per i loro anniversari. Poche parole, ma per loro sono importanti: sanno che sono un prete, rispondono, telefonano, mandano regali. In tutte le stagioni ho sempre un mucchio di frutta e di verdura che a volte è troppa per me e la condivido con chi mi sta attorno. Ma non è questo che cerco: anche un piccolo saluto che dai a una persona che hai conosciuto, è una forza.

Un giorno, mentre passavo in una chiesa, un uomo ha esclamato: “Padre!”, e ha tirato fuori un mucchio di cartoline che aveva ricevuto: “Le ho qui tutte!”. Se tu fai qualcosa anche solo a uno, pensa quanto bene puoi fare. Ti costa scrivere, spedire, cerco di utilizzare anche il computer, ma possibilmente scrivo a mano, è molto più significativo. Non si tratta di fare grandi cose, si tratta di essere presente, fare il poco che puoi. Invece di guardare la televisione, se puoi fare una telefonata a una persona…

 

Che cosa può spingere un Giapponese a diventare cristiano?

Normalmente, un giapponese non si avvicina al cristianesimo leggendo dei libri, ma attraverso l’incontro con una persona. Qualcuno, raro, può darsi che arrivi per aver visto alla televisione, per esempio, la vita di Madre Teresa.

Alcuni vengono dalle scuole, dove spesso le mamme, e a volte anche i papà, si sentono attratti dalla fede cristiana. Vengono, chiedono di poter assistere alla Messa… Le mamme cristiane diventano amiche delle altre mamme e le aiutano ad entrare nel gruppo di studio della Bibbia o di catechesi. La chiesa cattolica ha varie scuole in Giappone, da quelle materne alle Università, e degli ospedali.

Nelle chiese che ho costruito, ho voluto mettere degli strumenti musicali, non solo per rendere più bella la liturgia, ma anche per offrire concerti di musica classica: la gente viene ad ascoltare la musica e questo può essere un aggancio per pensare al Cristianesimo.

Tu dai la possibilità di fare un cammino, dicendo: “Il tal giorno della settimana c’è lo studio della Bibbia”. Parecchie persone vengono per studiarla e quelle che sono più interessate poi costituiscono un gruppo per la conoscenza del Credo cattolico. A quanti procedono nello studio della Bibbia puoi osare chiedere: “Vuoi saperne di più?”. Dai un libretto, fai una proposta di approfondimento… Pian piano li accompagni all’incontro con Gesù e alle varie tappe che conducono al Battesimo, presentandoli alla comunità nei momenti forti della liturgia.

Non si fa un insegnamento sistematico del cattolicesimo. In circostanze particolari, per esempio se viene il Papa, ci possono essere incontri di approfondimento, anche storico, per esempio riguardo ai cristiani martiri di Nagasaki. È qualcosa che rimane nei cuori come un seme. Che questo fiorisca in un battesimo classico è raro, ma stiamo creando una mentalità cristiana, un comportamento morale cristiano. Per esempio circa il valore del bimbo che deve ancora nascere.

 

Che cosa può portare in più la fede cristiana a un popolo già così ben organizzato?

Il contatto con un Dio reale, non con una tradizione che non ha nessun collegamento con la vita. In Giappone ci sono milioni di dei e c’è qualcosa di religioso, soprattutto nel Buddismo. Quando una muore, si va al tempio buddista, il solo che ha il culto funerario. Lo Shintoismo raccoglie piuttosto tradizioni della vita, naturali: la mamma incinta va a far benedire le fasce del suo bambino; quando nasce, le nonne, soprattutto, lo portano al tempio per il rito tradizionale; rarissimi, i riti matrimoniali… È una tradizione che continua. Il cristianesimo ti rende più realista: sai che cosa devi fare, lo vuoi fare, preghi: mentre loro lo fanno una volta l’anno battendo le mani, per te pregare è una cosa quotidiana e soprattutto della domenica. Gesù ti rende molto più attivo dentro nella società. Per accompagnare i nuovi battezzati nella crescita cristiana, proponiamo loro di entrare in un gruppo parrocchiale e partecipare alle sue attività, così che sperimentino la forza della comunità. Diamo molta importanza a padrini e madrine. Tocca anche al prete accompagnarli.

 

La sfida per noi tutti è vivere felici. Il cristianesimo dà un’aggiunta di felicità a queste persone?

La cultura giapponese è realtà puramente umana: insegna a stare all’altezza delle varie attività della città, delle tradizioni. Il cristianesimo dà effettivamente la possibilità di migliorare la propria vita, rende più quieti, autosufficienti, sicuri. La preghiera dà più gioia, quella sicurezza che non hanno i Giapponesi, che sono sempre occupati e preoccupati, devono stare alle regole, vivere la responsabilità verso il paese, la società, la famiglia, i figli. Il Cristianesimo ti dà la forza di una vita più sicura: sai dove andare, hai la possibilità di vivere con più serenità e gioia.

 

I Giapponesi non cristiani credono a una vita oltre la morte?

Tutti credono a una vita oltre la morte. Lo mostrano nei loro riti funebri, nelle celebrazioni al 30° giorno o nell’anniversario, nella cura delle tombe; ogni anno si riuniscono per ricordare i propri morti. Davanti al morto dicono nei loro discorsi: “Tu quando sarai là, prega anche per noi!”. Noi annunciamo la risurrezione come l’ha annunciata Cristo: ne parliamo apertamente durante i funerali.

 

Il mondo giovanile crede ancora ?

Oggi molti giovani hanno perso il senso, lo scopo della vita. Delusi dalle tradizioni, per loro la carriera diventa l’ideale. Quelli che non riescono vengono scartati e perdono il senso della vita. Molti preti e gruppi accolgono queste persone, che a volte vivono anche nella miseria materiale, cercando di riagganciarli alla vita. I cattolici dispongono su un tavolino presso la chiesa centinaia di pacchetti col pranzo e i poveri passano alla chiesa e prendono liberamente: significa che non altro riferimento che questo aiuto.

 

Qual è ora la sua missione?

Sono cappellano di un ospedale cattolico, che riceve malati di ogni fede. La mia missione è quella di essere me stesso come posso, un prete, senza spingere troppo. Percorro i reparti con i miei distintivi di prete, ed è un segno che la Chiesa è presente, Cristo è presente.

Agli ammalati con cui posso parlare assicuro sempre la mia preghiera e loro sono molto riconoscenti. Faccio un saluto, un inchino e un sorriso a tutti, una battuta che allieta, naturalmente sempre secondo l’etichetta giapponese. “Ho 58 anni”, dicevo a una vecchietta. E lei aveva preso lo scherzo al balzo: “Allora io ne ho 19”. Molti al vedermi mi parlano direttamente: “Come stai, Padre?”. È un apostolato molto blando, fatto nel rispetto e volendo bene. Con i pochi cristiani che vengono nella cappella dell’ospedale cerco di essere prete.

Nella parrocchia dove mi chiamano nei fine-settimana, vado volentieri e do il massimo, nei limiti della mia età. Con in bambini faccio un po’ di oratorio, parlo con loro un dieci minuti, utilizzando quanto ho immagazzinato durante il mio tirocinio fra scuole materne e chiese. Quando anche in altre parrocchie mi chiamano per qualche servizio, mi rendo disponibile.

 

Guardando a questi 60 anni, qual è il segreto della fedeltà?

Per me è una cosa normale. Sono vissuto così: ho cominciato da piccolo, a 11 anni e cerco di stare all’altezza del mio compito. La pena maggiore per me è, con la mia età, non poter fare tutto quello che vorrei fare ed essere messo un po’ nell’angolo. Santa Teresa di Lisieux diceva: sono contenta di essere uno straccio che tutti possono utilizzare. Il segreto più bello della vita è quello di accettarci nella situazione in cui siamo, e al contempo adattarci all’ambiente in cui siamo senza arrabbiarci né diventare irrequieti. Nel vangelo di Giovanni, Gesù diceva a Pietro: Adesso vai dove vuoi, ma quando sarai vecchio stenderai le mani e ti condurranno dove non vorresti. Occorre stare nelle Sue mani.

 

Qual è il segreto della felicità nella vita?

Non allarmarsi eccessivamente, vivere il momento presente, accettare le situazioni come sono, con un po’ più di fiducia: il Signore non è vicino a te perché tu lo vuoi, ma continuamente; averlo come amico ogni giorno, ogni momento, dialogare un po’ con lui. Incoraggiare anche gli altri. Un po’ di ottimismo pratico, reale, insieme a Lui.

Qualcuno dice: “Io prego la Madonna, dico cinque rosari”. Va bene, ma l’importante è incontrarti con Gesù. Marco all’inizio del suo vangelo dice che Gesù lungo il giorno guariva e insegnava, però alla sera si ritirava in un posto deserto, silenzioso, e lì si incontrava con suo Padre. Il suo divertimento, la sua televisione, il suo momento di relax era quello. Anche al mattino si alzava presto per dialogare con lui.

Quando vai su una cima, sei soddisfatto di avercela fatta. Però guardati attorno, guarda quante meraviglie ha fatto il Signore e godine. Quando salivo sul monte Misma ed eravamo in gruppo, mi mettevo all’ombra di un cespuglio e gustavo il silenzio, i panorami, quello che il Signore ha creato: lì è il mio “cioccolato”. Devi avere questi momenti un po’ intimi, gustare la tua vita che passa giorno per giorno. Ferma il tempo stando con il Signore, dialoga un po’ con lui: è il momento più grande della tua vita. Non è così difficile.

 

Che cosa vorrebbe dire ai giovani?

Siate più generosi, non cercate solo i vostri ideali personali; siate più entusiasti, utili, vivete una vita significativa non solo per il vostro tornaconto. Anche in Giappone, dico spesso: «La vita non è per te: se tu usi la tua vita per gli altri, allora cominci a vivere. Ultimamente mi sono centrato su tre parole, che iniziano con le prime tre vocali:

A: apprezzare. Se riesci ad apprezzare ogni cosa che è attorno a te, questo ti dà modo di vivere.

E: elogiare. Perché sei così avaro di lodi? Esci da te stesso, vedi la bellezza ed elogiala.

I: incoraggiare. Anche solo dire: «Mi piace… è buono… forza!». Apprezzare un buon pranzo, una bella giornata, le grazie che hai. C’è molto bisogno di incoraggiare, soprattutto gli anziani.

Se quando al mattino ti alzi, fai il segno della Croce e ricordi queste tre parole, dopo un mese sarai cambiato.

Pradalunga, 21.7.2022