Missionarietà fa rima con… Sanità
25 luglio 2020
Don Massimo Rizzi
Don Michelangelo Finazzi
Fotografie CMD Bergamo
Articolo
Tra le tante attività che i nostri giovani avrebbero potuto incontrare durante l’esperienza breve in missione ci sono le realtà ospedaliere e i presidi sanitari che in diverse parti del mondo sono portate avanti da missionarie e missionari laiche e religiose: la diocesi di Bergamo ormai diversi anni fa si era impegnata in modo significativo nell’ospedale papa Giovanni a La Paz; o piuttosto l’operato delle suore Poverelle è segnato in tutto il mondo dall’attenzione alle povertà sanitarie anche nelle zone più remote.
Sono molte le vicende di missionari, in tempi remoti ma anche in tempi odierni, che si sono ingaggiati in prima persona nel promuovere una sanità degna di questo nome: in questi giorni mi p capitato di incontrare la storia di p. Gherardi, in Ciad, che ha costruito ospedali e scuole di medicina.
All’inizio della pandemia, quando ancora nessuno aveva chiaro cosa stesse accadendo e cosa sarebbe accaduto, ricordo come il vescovo Francesco in occasione della via crucis celebrata nella cappella del crocifisso, prima di dare la benedizione co la sacra spina, si era rivolto a tutti gli operatori sanitari affidando loro una missione: “date la benedizione agli ammalati”. In quel momento non si capiva ancora quale era la portata del male che ci stava invadendo. Eppure il vescovo, aveva invitato tutti gli operatori sanitari a farsi prossimi degli ammalati, oltre che con la loro professionalità, anche nel segno della fede, dimensione fondamentale con cui un uomo e una donna si accosta ai momenti tragici, dolorosi, ed in particolare ai momenti ultimi della propria vita.
Una missione in corsia è possibile? Forse sì…
L’abbiamo chiesto a don Michelangelo, responsabile della pastorale sanitaria della nostra diocesi.
Anche la proposta della missione a KM0 darà la possibilità ad alcuni giovani di incontrare realtà segnate dal bisogno e dalla povertà, anche se l’ambito sanitario e medico oggi è ancora caratterizzato da un regime di emergenza che non rende così facile il suo accostamento.
“Grazie di avermi ascoltato!” è tra le espressioni più frequenti con cui si conclude un colloquio in ospedale o in casa di riposo, tra una persona ammalata e un cappellano.
Infatti c’è tanto bisogno di ascolto, specialmente in questo tempo in cui non è possibile ai familiari visitare i propri congiunti.
E questo ascolto diventa il segno concreto dell’attenzione personale che Dio rivolge a ciascuno di noi, specialmente nel momento della prova fisica e morale.
Questo dono dell’ascolto pian piano può aprirsi ad una parola discreta e prudente, quanto consolante ed efficace. Come Gesù, che sul cammino di Emmaus (Lc 24), dopo aver ascoltato a lungo e fatto sfogare con libertà, apre e rischiara il cuore dei due pellegrini, tristi, arrabbiati e delusi, con la forza della Parola di Dio, facendo ardere il cuore e riaccendendo la speranza.
Ci sono anche dati scientifici e laici che provano l’efficacia di una parola di speranza nei processi di cura e fanno toccare con mano l’aiuto che può offrire ad una persona ammalata l’attenzione alla “sua” spiritualità.
Nell’avvicinarsi alle persone sofferenti Gesù per primo ha sempre dimostrato quanto il male fisico e quello morale siano strettamente connessi e come la dimensione biologica, psicologica e spirituale formino un tutt’uno nella persona umana. Oggi lo si chiama “approccio olistico” al paziente, che tiene conto di tutte le sue dimensioni.
Ma proseguendo sul cammino di Emmaus, si arriva alla richiesta di un incontro più profondo con il Signore e all’esigenza di “spezzare il pane”.
Non di rado il colloquio con il paziente arriva al felice esito dell’incontro sacramentale con Cristo, nella Confessione/Comunione, magari dopo molti anni di digiuno, o al sacramento dell’Unzione dei malati, vissuto sempre più come carezza tenerissima e rinforzante della Misericordia di Dio, che come gesto estremo di saluto.
Ovviamente non è un’imposizione, ma una richiesta maturata nel dialogo; non può essere un approccio iniziale al malato, ma un eventuale punto di arrivo non scontato e provvidenziale.
Attorno a tale percorso possono inserirsi tanti gesti di attenzione e di servizio: la videochiamata ai familiari, il passaggio delle borse con i familiari esterni ai reparti, la gioia di condividere un caffè, il piacere di stare un po’ in compagnia.
E tale preziosa missione, che esprime così bene la vicinanza del Signore e della Chiesa, ma anche la dignità e la preziosità di ogni persona fragile, si allarga ad una pluralità sempre più variegata di operatori pastorali.
Infatti accanto al sacerdote, nelle cappellanie operano sempre più frequentemente religiosi/e e laici che si preparano opportunamente e si donano generosamente in questo servizio ecclesiale.
Anche gli operatori sanitari, specialmente in tempo di pandemia, si sono trovati spesso a farsi carico di questo profondo bisogno spirituale degli ammalati, con una parola buona, una preghiera o qualche gesto di pietà cristiana donato con trepidazione e delicatezza a persone che lasciavano questo mondo senza poter avere la vicinanza di un sacerdote.
Essi hanno manifestato un po’ di disagio nello svolgere mansioni per loro non consuete, ma insieme hanno testimoniato il sollievo rasserenante di consegnare a “Qualcuno di più grande” il proprio paziente, dopo aver fatto tutto il possibile, attutendo il frustrante senso di impotenza vissuto in tempi così drammatici.
È evidente che, lungi dal far proselitismo, l’assistenza spirituale a chi soffre sia una priorità assoluta per una Chiesa che vuole essere sempre più “in uscita”. Nelle case di cura si trovano tutti: atei e credenti, praticanti e non, giovani e vecchi, pazienti e operatori, familiari ed amici. Per tutti possiamo essere segno di un Dio che non ci abbandona, ma si fa carico delle nostre sofferenze e ci accompagna con la sua tenerezza.
Non è missione questa?!
Don Massimo Rizzi e don Michelangelo Finazzi