Missionarietà fa rima con… Mondialità
8 luglio 2020
Don Massimo Rizzi
Giancarlo Domenghini
Fotografie di Michele Ferrari
Articolo
Mondialità… uno dei temi cari al CMD, da che mondo è mondo, è proprio il caso di dire…
Perché mondialità ci richiama ad un’attenzione propria dei missionari, di rimanda all’attenzione al mondo che ci circonda, all’abitare i confini, al varcare la soglia, al conoscere culture, religioni, popoli e lingue diverse.
Un tema caro a quanti hanno operato in ambito di integrazione e intercultura (cosa che ho avuto la fortuna di fare negli anni scorsi).
Oggi in molti anche a livello ecclesiale, continuano ad occuparsi di temi di mondialità, in un tempo in cui le condizioni socio-politiche rendono sempre più difficile la possibilità di viaggiare, e si vuole dare un senso ai confini degli stati.
Abbiamo chiesto di aiutarci nella nostra riflessione ad un operatore dell’Ufficio per la pastorale dei Migranti: ci ha dato, a partire da un excursus storico sulle vicende di una istituzione e la sua rivista, alcune note di come in questi anni anche il concetto di mondialità ha vissuto cambiamenti ed evoluzioni.
La sua riflessione ci aiuti a capire come la missione non è mai data per acquisita, una volta per tutte, ma che cammina con gli uomini, con la storia, ed è capace di ripensarsi a seconda di quanto accade nel mondo.
Questo abbinamento di termini “in rima” mi ha subito rimandato a una rivista/mensile che per diversi anni (purtroppo la crisi editoriale ha colpito anche qui) è stata un faro per il mio essere attivo in contesti multiculturali (e so di essere in buona compagnia, in particolare tra i molti che hanno a cuore lo sviluppo interculturale in ambito socio-educativo). Il suo titolo è molto breve: CEM, acronimo che sta per Centro Educazione alla Mondialità, progetto editoriale e proposta pedagogica della congregazione missionaria dei Saveriani. Quindi degli esperti e protagonisti di missionarietà che decidono di “battezzare” il proprio mensile dedicato all’azione missionaria “interna” con il termine “mondialità”.
Anzi, di ri-battezzare, di cambiare nome: nei primi suoi decenni di vita la sigla CEM stava per “Centro di Educazione alla Missionarietà”. Nato nel lontano 1942 a Parma, il CEM sorge dal tentativo di tre giovanissimi missionari saveriani di mettere in pratica l’ideale del fondatore dell’ordine saveriano, il Beato Guido Maria Conforti: “fare del mondo un’unica famiglia”.
Esso si segnala per un forte impegno internazionalista rivolto alla scuola italiana, producendo materiali innovativi, favorendo l’attuazione di convegni e seminari, e creando un notevole dibattito che coinvolge molti dei maggiori pedagogisti dell’epoca.
Verso la fine degli anni sessanta, la Emme della sigla passa a diventare l’iniziale di Mondialità, in un momento in cui i vocabolari non riportano neppure tale termine.
Lo scopo fondamentale dello strumento-rivista, riportato nell’editoriale del 1° numero (ottobre 1972), è quello di “fare della nostra scuola come un “crocevìa di sentieri” — causa e condizione del suo rinnovamento, del suo arricchimento e della sua continuità come azione educativa ad ogni livello — per facilitare, mediante il dialogo con le altre culture e la fedeltà alle rispettive tradizioni culturali, il suo inserimento realmente operativo nella comunità nazionale e mondiale”.
La missionarietà dunque che guarda ai luoghi di partenza dei missionari con la convinzione che l’educazione giochi un ruolo chiave nel qui ed ora di ogni epoca, tanto più quando si dimostra in grado di interrogarsi sui processi che legano dinamiche locali e globali, da incoraggiare attraverso esperienze di partecipazione democratica e di cittadinanza attiva sia nella scuola sia sul territorio.
Se la sua mission può essere definita con quella che don Tonino Bello chiamava la “convivialità delle differenze”, il metodo di CEM è l’interculturalità (che fa anche da sottotitolo: “Mensile di educazione interculturale”), che si basa sul presupposto che ogni cultura, essendo un carattere essenziale dell’esistenza umana, mira alla perfezione integrale della persona umana, al bene della comunità e di tutta la famiglia umana.
Conseguenza di questo aspetto antropologico non è l’“unicità” (specie se si trasforma in etnocentrismo), ma la internazionalità, la pluralità delle culture: pluralità, questa, che non impedisce, ma facilita e perfeziona la realizzazione “propria” delle diverse civiltà.
Ora che il mondo abita anche il nostro quotidiano, che si è avvicinato grazie ai flussi migratori, abbiamo a disposizione una formidabile palestra di mondialità, per contribuire tutti a “fare del mondo un’unica famiglia”.
Giancarlo Domenghini e don Massimo Rizzi