Missionarietà fa rima con… Spiritualità
6 giugno 2020
Don Massimo Rizzi
Don Carlo Nava
Fotografie di Michele Ferrari
Articolo
Non c’è missionarietà senza spiritualità, non c’è spiritualità senza missionarietà.
La nostra rubrica “fa rima con” si ferma quest’oggi sulla parola spiritualità.
L’occasione nasce da un duplice spunto: la celebrazione crismale e la solennità di Pentecoste.
In occasione della celebrazione crismale, avvenuta in Duomo giovedì prima della solennità di Pentecoste, vissuta da parte di alcuni sacerdoti in cattedrale e di molti altri davanti alla tv, impediti alla partecipazione dal vivo per le ovvie norme anti-assembramento, il Vescovo ha invitato i sacerdoti a riflettere, tra le altre cose, sulla dimensione della spiritualità, come aspetto che ha caratterizzato il tempo della pandemia.
I sacerdoti si sono distinti in questo periodo, ha detto il Vescovo, proprio per una spiritualità incarnata, fatta di una preghiera quotidiana e intensa, non magica, nella speranza che potesse far scomparire il virus, ma nella certezza che tale invocazione avrebbe fortificato lo spirito di affidamento anche in un momento così oscuro.
Una spiritualità, sempre secondo le parole del vescovo, che deve continuare a caratterizzare il nostro ministero.
Dall’altra parte, l’occasione è data anche dalla solennità di Pentecoste, che inaugura il tempo liturgico ordinario, quasi a dire un tempo normale, ma proprio per questo non scolorito e insapore, come potrebbero apparire le giornate che scorrono abitudinariamente rincorrendosi l’un l’altra (ma c’è davvero una giornata simile all’altra, anche per quanti vivono una routine così abitudinaria che neppure la pandemia, che speriamo di esserci lasciati alle spalle, non ha minimamente smosso; un tempo non “forte” come vengono definiti liturgicamente i tempi di avvento e di quaresima (e dovrebbe essere anche il tempo pasquale) ma un tempo appunto ordinario, ma non per questo non segnato dal vento dello Spirito che anima la nostra vita, e la incarna nelle situazioni più quotidiane della vita, segnate oggi da una fatica della ripresa.
Come allora non soffermarci su questa rima missionaria?
Lo abbiamo fatto lasciandoci aiutare da don Carlo Nava, responsabile vocazionale in diocesi, e direttore dell’ufficio Tempi dello Spirito, l’Ufficio diocesano che coordina tutte le attività di animazione spirituale (dalla scuola di preghiera alle proposte di esercizi spirituali nelle varie forme).
Custodire e coltivare la propria spiritualità è condizione di missionarietà autentica, secondo il cuore di Cristo. Vivere la propria missionarietà incide profondamente nell’esperienza spirituale del credente.
Tra missionarietà e spiritualità c’è una inevitabile virtuosa circolarità. Sono due sorelle che vanno a braccetto. Non c’è una senza l’altra.
Basti pensare a Santa Teresa di Lisieux, carmelitana, che nel 1927 Papa Pio XI proclamò patrona delle missioni. La sua spinta missionaria si è certamente corroborata in monastero attraverso il nutrimento quotidiano della sua spiritualità che l’ha spinta a tenere una costante corrispondenza con alcuni sacerdoti missionari.
Papa Francesco continuamente ci ripete che interiorità e slancio missionario sono i due tempi insostituibili del cuore della Chiesa.
A questo proposito è emblematico ciò che scrisse nell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” al numero 262 laddove parla di motivazioni per un rinnovato impulso missionario:
“Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista dell’evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. […] Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività.
Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne.
La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera, […].
Nello stesso tempo «si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione». C’è il rischio che alcuni momenti di preghiera diventino una scusa per evitare di donare la vita nella missione, perché la privatizzazione dello stile di vita può condurre i cristiani a rifugiarsi in qualche falsa spiritualità”.
Dunque una adeguata cura del proprio mondo interiore garantisce un’appassionata spinta missionaria.
Ma come curare la propria interiorità?
Tre mi sembrano i filoni per poter coltivare il proprio cuore: la conoscenza di sé, la cura delle relazioni, il nutrimento della propria fede.
Per potersi donare è necessario conoscere che cosa ho da donare e visto che il dono missionario è un donarsi è importante conoscere che cosa ho nello zaino della mia esistenza.
Poi è necessario dare un occhio alle proprie relazioni o, meglio, a come si sta in relazione. In effetti, la missione non può mai prescindere dal modo particolare di ciascuno di stare in relazione.
Ed infine il nutrimento della fede, di quel rapporto con Dio dal quale la nostra missione prende ogni significato. Per nutrirlo questo rapporto è necessaria la preghiera quotidiana, l’ascolto della Parola, una buona vita sacramentale, il legame con la Chiesa e per questo una guida spirituale fidata e affidabile.
Se stacchiamo spiritualità da missionarietà andiamo incontro a derive che assolutizzano un polo o l’altro: o a una missionarietà senza Gesù o a una missionarietà senza il corpo, senza l’uomo.
Tenere insieme i due poli è garanzia di una autentica testimonianza evangelica.
Don Massimo Rizzi e don Carlo Nava